Confartigianato: “Ripartiremo solo difendendo il made in Italy!”
Gli artigiani alessandrini non si arrendono alla crisi, ma la cinghia non si può tirare oltre: i buchi sono finiti!. Crisi del credito, clienti (soprattutto pubblici) che non pagano, numero di aziende sul territorio in calo. Flavio Arlenghi, direttore provinciale di Confartigianato, ci accompagna in un piccolo viaggio tra difficoltà, speranze e progetti di rilancio
Gli artigiani alessandrini non si arrendono alla crisi, ?ma la cinghia non si può tirare oltre: i buchi sono finiti!?. Crisi del credito, clienti (soprattutto pubblici) che non pagano, numero di aziende sul territorio in calo. Flavio Arlenghi, direttore provinciale di Confartigianato, ci accompagna in un piccolo viaggio tra difficoltà, speranze e progetti di rilancio
Nella sede alessandrina di Confartigianato sono tutti indaffarati, e il direttore provinciale Flavio Arenghi, che torniamo a trovare a distanza di qualche tempo, passa da un appuntamento telefonico ad una riunione. Insomma, non sembra un contesto da settore in crisi, ma è lo stesso direttore a chiarire che invece “tira una bruttissima aria, assai peggiore di 6 mesi fa, soprattutto per il nostro territorio”. Ma per fortuna, “scavando”, si coglie anche qualche segnale positivo, che consente di sperare, se non in una rapida ripresa complessiva, quantomeno nella tenuta di alcuni comparti, e nel rilancio di alcuni altri.
Direttore Arlenghi, ci lasciammo la volta scorsa con l’immagine dell’artigiano che tira la cinghia, per salvare azienda e posti di lavoro. E oggi?
(sorride, ndr) Oggi i buchi della cinghia sono finiti, c’è poco altro da tagliare, anzi niente. Anche perché per fortuna la logica dei nostri 3.500 associati è sempre quella di salvaguardare in primis la forza lavoro: per ragioni di relazioni umane che si creano, ma anche perché parliamo spesso di personale qualificato, specializzato. Soprattutto quelli che sanno usare le mani, che sono sempre meno.
I dati dell’Osservatorio regionale per il primo semestre 2012 sono critici, ma non disastrosi….
Sì, ma bisogna anche saperli leggere, e interpretare. Oggi in provincia di Alessandria abbiamo complessivamente circa 12.500 imprese artigiane, e per la prima volta dopo molti anni si registra una contrazione ufficiale. Ma in realtà, già da qualche tempo, la crescita apparente era dettata per lo più da imprese individuali nel mondo dell’edilizia: ossia ex dipendenti che si mettevano in proprio, o lavoratori stranieri che ci provavano.
Oggi l’edilizia come va?
E’ ferma, completamente, a parte piccole ristrutturazioni che incidono poco e niente. E edilizia, sul nostro territorio, vuol dire primo motore: una filiera impressionante. Del resto basta vedere il numero di lavoratori marocchini o albanesi che stanno facendo rientro in patria, o puntando verso la Germania. E’ un altro indice significativo.

Pesa tanto, tantissimo. Ci sono 2.500 lavoratori (tra comune, partecipate e cooperative) che percepiscono lo stipendio a singhiozzo, e nella totale incertezza sul futuro. Chi non incassa, non spende, o lo fa con grande parsimonia, preparandosi ad un inverno difficile. Questo condiziona tutto il territorio, e non solo la città in senso stretto. Senza contare le tante realtà, anche nostre associate, che sono creditrici proprio di Palazzo Rosso, di Amiu e di altri soggetti pubblici.
In questi casi che si fa? Le banche rispondono agli Sos del mondo artigiano?
Le banche fanno il loro mestiere, che è erogare credito solo se ricevono precise garanzie, soprattutto di questi tempi. Purtroppo sempre più spesso la richiesta di prestiti è finalizzata non ad investimenti, ma alla sopravvivenza, ossia all’esigenza di liquidità per le spese ordinarie. E su questo fronte il mondo del credito fa resistenza. Noi lo constatiamo direttamente: tramite Confidi istruiamo le pratiche per i nostri associati. Ebbene, ormai soltanto la metà delle richieste di finanziamento viene soddisfatta dal sistema bancario. E questo certamente non aiuta.
Confartigianato, a livello nazionale ed europeo, ha preso posizione in difesa del made in Italy: è una vicenda così grave?
Purtroppo sì, e noi continuiamo a dirlo con forza: l’Unione Europea deve riconoscere in maniera chiara e inequivocabile il valore dell’identificazione dell’origine dei prodotti e delle lavorazioni. Un made in Italy come quello di oggi, annacquato, serve solo ad alcuni grandi marchi: che appaltano la produzione a fabbriche dell’estremo oriente, e qui in Italia ci aggiungono la rifinitura, l’etichetta o poco più. Per gli artigiani veri, è una concorrenza assolutamente sleale.
A proposito di export: per fortuna quello alessandrino continua a “tirare”..
E’ vero: siamo a livelli percentuali doppi rispetto a quelli regionali: e non solo per prodotti come la gioielleria valenzana, ma anche per tante lavorazioni di nicchia, molto specializzate e di qualità. E su quel fronte anche noi, come associazione, cerchiamo di fare la nostra parte: perché piccole realtà, per lavorare stabilmente con l’estero, hanno sicuramente bisogno di supporto, consulenza personalizzata, assistenza normativa e quant’altro.
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Si è appena conclusa la Mostra del Gioiello, e sicuramente nessuno ha intenzione di mollare. Un progetto interessante è quello che è stato appena presentato, legato alla valorizzazione, attraverso una nuova joint venture, del mercato DiValenza sui mercati asiatici. In sostanza un fondo di investimento cinese ci crede, ha deciso di investire, e di aprire per ora 100 punti vendita di gioielli valenzani in tutta l’Asia: e dovrebbero diventare 300 nel giro di qualche anno. E si venderanno esclusivamente prodotti delle aziende aderenti al consorzio DiValenza. Speriamo possa essere davvero la svolta che serve a dare “la scossa” a tutto il distretto.
Qual è lo stato di salute dell’artigianato nel resto della provincia?
Le difficoltà ci sono ovunque, ma aree come il novese e il tortonese, per fortuna, mantengono un certo dinamismo, e una loro solidità. Ovada è statica, Casale e il casalese in oggettiva difficoltà.
Dottor Arlenghi, ci sono ancora artigiani che ci provano, e aprono nuove attività? E lei lo farebbe?
Ci sono, per fortuna sì. Certo, per onestà va detto che spesso sono persone che ci provano, magari perché hanno perso un lavoro precedente. E la mortalità, nei primi due anni, è molto alta: se riesci a superare la fase di avvio, pian piano puoi incamminarti, puntando sulla specializzazione. Io se fossi un ragazzo di proverei certamente: bisogna crederci, e rilanciare. Ma ho 66 anni, e mi sa che tra qualche mese passerò la mano: anche se qui il lavoro certo non manca.