Storia di una famiglia ebraica, storia di una famiglia alessandrina
Abbiamo parlato con Paola Vitale, delegata della comunità ebraica per Alessandria. Ne è venuto fuori un racconto vivido e intenso della storia degli ebrei alessandrini con un ricordo particolare alle vicende della sua famiglia
Abbiamo parlato con Paola Vitale, delegata della comunità ebraica per Alessandria. Ne è venuto fuori un racconto vivido e intenso della storia degli ebrei alessandrini con un ricordo particolare alle vicende della sua famiglia
“Sono convinta che aprire la sinagoga al pubblico, con delle guide che spiegano gli usi degli individui di religione ebraica e rispondono alle domande dei visitatori, è una cosa utilissima. Il non sapere quello che l’altro pensa e crede porta più facilmente l’idea che l’altro abbia qualcosa da nascondere” così si chiude una lunga conversazione con Paola Vitale, delegata per la comunità ebraica e una delle poche alessandrine di religione ebraica rimasta.
Partito con il proposito dell’intervista canonica, l’incontro con la professoressa Vitale si è trasformato in una racconto ricco di particolari e quanto mai vivido. Un flusso in cui la storia di una famiglia si incrocia con la storia di una città. La vita di un padre o un nonno diventa vicenda esemplare in grado di far comprendere i fatti meglio di un libro scolastico. I dati statistici fanno impressione. Percorrere, attraverso il filtro della memoria, la strada di alcuni di quegli individui divenuti numeri, trasmette emozioni empatiche che le cifre da solo non possono dare. E, ancora prima, fa abbandonare il ruolo di intervistatore per rimanere in ascolto. Un ascolto che si sente quasi di peccare di indiscrezione di fronte a un ricordo che vuole essere cancellato dagli stessi protagonisti perché troppo doloroso. “In molti erano restii a raccontare quanto gli è successo durante la Seconda Guerra Mondiale per due motivi: per la paura di non essere creduti e per il senso di colpa per essersi salvati. Per loro raccontare e rivangare riportava alla memoria ricordi e sensazioni sgradevoli. Alcune cose io le ho sapute solo 10 anni fa da mio zio, prima nessuno mi aveva mai detto nulla -spiega Paola Vitale- Perfino la storiografia fino a metà anni ’70 parlava poco della Shoah”. Se certe cose hanno potuto essere rivissute è solo per un senso di responsabilità verso le generazioni future, per non far scordare quanto successo perché, come ammoniva Primo Levi: “coloro che dimenticano il loro passato, sono condannati a riviverlo”
Per guardare al passato bisogna, innanzitutto, inoltrarsi in cinque secoli di storia (rimandiamo per una trattazione esaustiva a “Gli ebrei di Alessandria” di Aldo Perosino). Attraversare periodi di convivenza difficile ma per lo più pacifica . “Tra la popolazione di Alessandria e la comunità ebraica cittadina non ci sono mai stati grandi problemi di incomprensione, a parte fatti sporadici e tra persone singole. Anche quando si doveva chiudere il ghetto qui la si è tirata il più per le lunghe possibile. Da quando poi Carlo Alberto, nel 1848, ha reso gli ebrei cittadini uguali agli altri, si sono potute iniziare a frequentare le scuole pubbliche, ambire a cariche amministrative e militari. Ad avere una visione più negativa di questa libertà furono, paradossalmente, alcuni rabbini che temevano per la perdita della cultura ebraica. Il mio bisnonno, ad esempio, nel ghetto faceva il calzolaio; un mestiere umile, non certo qualcosa con cui arricchirsi. Con l’uguaglianza e la possibilità di uscire dal ghetto piano piano ha messo su un’attività: il calzaturificio Angelo Vitale. A quei tempi, e fino ai primi del ‘900, la comunità era nutrita per essere una città come Alessandria. Nell’ottocento era formata da circa 500 persone, poi già con i matrimoni misti e l’assimilazione si arrivò sui 300 prima della guerra. In città, come in tutta Italia, si è iniziato presto a mescolarsi. Emblematico è il matrimonio che si celebrò in una casa del ghetto nel 1835 a cui parteciparono anche molti cattolici e addirittura due ufficiali di stanza in città. C’era talmente tanta gente che il pavimento non resse e crollò provocando morti e molti feriti. Tutta la popolazione diede il suo aiuto e all’ospedale furono curati gratuitamente tutti, senza fare distinzione di religione”.
Quando le persone a sé più care hanno però vissuto una delle pagine più nere dell’umanità è inevitabile che, ripercorrendo la storia, le parole portino a raccontare quei fatti. Parole che si fanno più vive ed evocano i volti di genitori e di nonni, abbinando gioie e tragedie come solo il percorso di una vita sa fare. “I miei genitori si sono sposati nel 1942, nella sinagoga di via Milano. Mia mamma aveva 20 anni ed era dovuta andare in sinagoga con quello che metteva su tutti i giorni; il vestito da sposa lo teneva nascosto. Se veniva vista girare vestita da sposa per quelle zone poteva passare dei guai. Dopo il matrimonio i miei poterono vivere ancora in città per un po’, pure se il clima iniziava a farsi sempre più pesante. Tutto precipitò con l’armistizio del 8 settembre 1943. Intorno a quella data mio papà, che era avvocato e aveva 35 anni, stava andando in ufficio in bicicletta e, passando per il ponte Cittadella, vide che stavano arrivando i carri armati tedeschi. Aveva captato che c’era qualcosa di strano, che qualcosa non andava. Tornò di corsa a casa per provare a capire cosa accadeva. Attraverso radio -che gli ebrei non potevano possedere- e informazioni recepite da qualche conoscente, comprese che era meglio fuggire. Mise moglie e mamma su un carretto e partì per Milano. Verso Milano ci si muoveva per raggiungere la Svizzera. Mia nonna paterna fu lasciata a Monza in un manicomio, in mezzo ai matti veri. Dal settembre ’43 a maggio ’45, sana che fingeva di essere matta. Ogni tanto i tedeschi venivano a fare delle ispezioni nel manicomio, non l’hanno mai scoperta grazie anche a infermieri e dottori che l’hanno sempre coperta. I miei da Monza sono ripartiti per Porto Ceresio. Lì c’è il versante italiano del lago di Lugano. Mia mamma, con due sue cugine, ha pagato dei contrabbandieri per farsi portare al confine svizzero. Qui le persone venivano lasciate e dovevano passare sotto del filo spinato con dei campanellini che avvertivano se il filo veniva mosso. Mia mamma alzò con cautela il filo spinato per far passare le sue cugine e poi lei dovette farlo da sola. Appena attraversata la barriera infatti si doveva correre a capofitto giù per una riva per non essere visti dai militari al confine. Mio padre, invece, ha attraversato il lago fino al versante svizzero vestito da finanziere. A Porto Ceresio c’era una caserma della Guardia di Finanza, i finanzieri della caserma hanno dato delle divise a mio padre e ad altri uomini e gli hanno portati con una barca dall’altra parte del lago”.
Questa epopea famigliare tra fughe repentine, ospedali psichiatrici e esili in Svizzera, incontra anche l’orrore dei campi di sterminio, del più tristemente famigerato tra essi. “I miei nonni materni sono stati arrestati e tenuti per un periodo al cercare di piazza Don Soria. Mia nonna è sempre stata restia a raccontarmi quel periodo, so comunque che hanno preso tante botte. Con mille difficoltà e traversie sono poi riusciti ad uscire dal carcere. A quel punto le loro vite si sono divise. Mia nonna, camuffata da crocerossina, è salita su un camion di tedeschi per andare a Roma. Un viaggio sotto lo sguardo di tutti quei soldati, ebrea in mezzo a nazisti. Nella capitale ci è arrivata nel ’44, pochi mesi prima che venisse liberata. Mio nonno ha tentato con mio zio di passare in Svizzera nella zona vicino a Varese. Sono stati catturati prima di riuscire ad attraversare il confine. Con molti stenti e vicissitudini mio zio è riuscito a raggiungere sua madre a Roma. Mio nonno invece è stato portato a Fossoli. Da Fossoli lo hanno mandato poi ad Auschwitz con uno degli ultimissimi treni di deportati che è partito. Aveva 54 anni. Quando è finita la guerra mio padre ha tentato di sapere se mio nonno fosse ancora vivo. È riuscito a trovare un uomo in Alessandria che era riuscito a sopravvivere ai lager. Pochi giorni prima dell’arrivo dei russi, il 27 gennaio del 1945, mio nonno era ancora vivo, così aveva raccontato quell’uomo a mio padre. Nonostante questo non siamo mai riusciti a capire che fine avesse fatto. Sappiamo solo che era vivo pochi giorni prima dell’arrivo dell’Armata Rossa. Poi potrebbe essergli successa qualunque cosa. Può darsi che sia morto mentre i russi portavano i detenuti dei lager polacchi in Germania: dalla Polonia alla Germania a piedi, camminando in mezzo alla neve. Mio nonno magari non ha resistito al freddo o allo sforzo; forse i russi gli hanno sparato in testa perché non riusciva più a camminare. Anche la nonna di mia mamma e sua sorella, che stavano a Casale, sono morte: nei vagoni dei treni mentre le stavano deportando. In ogni famiglia c’è qualcuno che è morto nell’olocausto. Alla mia non è nemmeno toccata una sorte estrema come ad altre”.
Il valore della memoria è l’antidoto più efficace contro qualunque tipo di discriminazione. In un tempo in cui la crisi e l’incertezza di valori volgono sulle tinte della paura la globalizzazione multiculturale, il rinascere di moti razzisti è un pericolo concreto. Proprio da questa ombra nascono le ultime parole di Paola Vitale al termine di questa lunga chiacchierata. “Temo il rinascere dell’antisemitismo. Nel ambito di un razzismo ampio, che esiste, rinasce anche quel particolare tipo di razzismo che è l’antisemitismo. Un conto è criticare ciò che fa lo Stato d’Israele, un conto è confondere la politica d’Israele con l’essere ebrei. Una signora in visita alla sinagoga ha chiesto alla guida come mai non era ancora stata finita la ristrutturazione del tempio. Alla risposta che mancavano i fondi, la signora ha ribattuto per quale motivo non ce li mandava Israele. Come se la sinagoga non fosse un bene italiano e noi non fossimo cittadini italiani”.
Per confortare, in piccolissima parte, la signora Vitale ci piace chiudere con una storiella ebraica citata da Moni Ovadia, in grado di girare qualunque discriminazione in un witz, un motto di spirito, con la sola forza del tipico umorismo yiddish:
Anno quarto dell’era nazista. Un ebreo cammina per una strada di Berlino. Incontro a lui viene un ufficiale delle SS. Quando si incrociano, l’SS guardando l’ebreo dice secco: “Porco!”
L’ebreo si inchina leggermente verso l’ufficiale nazista e a sua volta dice: “Molto onorato, Isidoro Epstein!”