I.C.I. alla Chiesa e laicità dello Stato
Dall'I.C.I. sulle proprietà - ad uso prevalentemente commerciale - della Chiesa alla laicità dello Stato espressa attraverso il controllo di adeguatezza del personale docente all'interno delle scuole religiose parificate. Proponiamo questo articolato commento di Agostino Pietrasanta che intreccia questioni nazionali (e di principio) con il dettaglio di alcuni casi locali
Dall'I.C.I. sulle proprietà - ad uso prevalentemente commerciale - della Chiesa alla laicità dello Stato espressa attraverso il controllo di adeguatezza del personale docente all'interno delle scuole religiose parificate. Proponiamo questo articolato commento di Agostino Pietrasanta che intreccia questioni nazionali (e di principio) con il dettaglio di alcuni casi locali
Spero di non incorrere nell’impazienza del lettore se, ancora una volta, ribadisco che la complessità delle questioni non si risolve con la cristallizzazione del pregiudizio e con lo scontro ideologico. Ora, proprio il dibattito sulle tasse da imputare alla Chiesa rischia di incorrere nelle conseguenze che ne derivano: da qualunque parte penda l’ideologia, non serve neppure ad entrare nel merito della questione.
Va detto in premessa che non è esatto affermare che la Chiesa non paga le tasse; più correttamente va precisato che la Chiesa ha goduto, in materia, di alcune esenzioni, in parte giustificabili, in parte discutibili, in parte del tutto prive di qualsiasi fondata ragionevolezza.
Mi preme per intanto ripetere che le esenzioni godute in materia dalla Chiesa potevano avere una qualche e specifica ragione, quando in presenza degli Stati totalitari o anche di Stati che nello spirito delle democrazie liberali si richiamavano ai principi del separatismo ostile (la confisca dei beni ecclesiastici, per fare un esempio), i vertici della S. Sede puntavano a rapporti di difesa delle proprie prerogative. Man mano che si delineano rapporti di assoluta collaborazione fra Chiesa e Stato nelle più disparate materie di interesse comune, anche le prerogative reclamate dalla Chiesa stessa rientrano in un clima ed in un contesto di diverso tenore. In questo mutamento di prospettive anche le prerogative altra volta reclamate, non possono non subire modifiche anche importanti: tra queste ci stanno certamente le esenzioni fiscali.
Scelgo di limitarmi alla questione dell’ICI ora IMU, dal momento che le decisioni prese dal governo Monti, hanno suscitato dibattito su tale materia. Dirò solo alla fine della chiacchierata ciò che penso personalmente di una decisione fondamentale per la laicità delle istituzione presa da un governo tecnico, senza il confronto e la dialettica relativa che avrebbe dovuto essere compito dei partiti politici.
Anche su questa specifica materia vale ciò che ho premesso per il problema in generale: la Chiesa ha goduto di esenzioni, ma ha pagato ICI in casi specifici e non in altri.
Vediamo nel particolare. Ha sempre pagato per gli immobili adibiti ad esclusivo uso commerciale con dichiarato fine di lucro. Per fare due esempi sul locale: la Diocesi è proprietaria dei locali affittati dalla Banca Desio (piazza Libertà), avendoli acquisiti dalle Paoline quando queste ultime hanno chiuso la libreria. Su tali immobili ha sempre pagato ICI nella consistenza ordinaria. Ancora: è proprietaria del teatro di via Vescovado; poiché i locali di pertinenza non vengono più adibiti a finalità formative, perché non a norma di sicurezza, su di essi viene pagata l’imposta prevista. E tanto basti per il capitolo sui locali cosiddetti “commerciali”: la Chiesa paga ed è giusto che paghi.
La Chiesa non paga ed è plausibile che non paghi nel futuro (ma mi permetterò qualche distinguo) sugli immobili destinati all’esercizio del culto e loro pertinenze. Sulle chiese non c’è da dire; sugli immobili destinati all’abitazione dei ministri del culto in linea di massima neppure, purché tali rimangano, tanto più che di norma essi costituiscono, in mancanza di oratori, il luogo educativo per tutti e non solo per i praticanti, il luogo di aggregazione e di socializzazione pressoché unico dei rioni e dei paesi. Diverso ragionamento se da luoghi di servizio essi si trasformino in locali signorili con annesse sale di musica, biblioteche ricercate o quant’altro: cose tutte legittime, ma non vedo perché possano essere causa di esenzione da tasse. Stesso ragionamento per quei locali delle parrocchie, non proprio di pertinenza del culto, circoli con attività commerciali e bar.
Credo che su questi distinguo si possa fare chiarezza, anche grazie alle nuove disposizioni. Lasciamo stare le solite “furbate” che tutto sommato costituiscono l’eccezione, ma non hanno ragion d’essere. Ricercando informazioni, mi è giunta attendibile notizia e da persona assolutamente affidabile (cito l’esempio per farmi capire) che esiste in diocesi di montagna del Nord/Est (non specifico perchè nonostante l’affidabilità non mi sono stati possibili ulteriori controlli della notizia) un impianto di risalita con annessi locali di pertinenza di proprietà della Chiesa locale; poiché tra gli annessi c’è una cappelletta, il tutto viene considerato luogo di culto con relativa esenzione ICI. Casi simili non contribuiscono alle ragioni di correttezza e di sobrietà invocate dagli stessi vertici ecclesiastici; penso che le nuove norme che escludono dall’esenzione gli immobili a prevalente e non già esclusiva attività commerciale, possano contribuire ad evitare anche questi casi limite.
Si perviene, a questo punto del ragionamento a trattare degli immobili a prevalente attività commerciale. Basti un cenno a tutte le case costruite, prevalentemente in luoghi di villeggiatura, a fini di formazione dell’associazionismo ecclesiale. Col passare degli anni, i costi di gestione hanno obbligato i responsabili a fare di queste case anche dei luoghi per ferie con attività di lucro; infine invece di anche furono soprattutto, anche se non esclusivamente, degli alberghi adeguati ed a norma. Inutile dire che, quando ancora siano esentati, non potranno più esserlo.
Discorso specifico sugli oratori, o su quei pochi che esistono, almeno da noi. La loro pressante necessità, il loro ruolo formativo, purché non sia chiuso alla generalità della domanda e riservato alle preferenze delle congregazioni promotrici (!) consiglierebbe che i locali di loro pertinenza fossero esentati. Con la speranza che con il bar ed annessi non arrivino a svolgere attività prevalentemente commerciale.
Il governo, per quanto pare, ha riservato una valutazione attenta alle scuole non statali, paritarie legalmente riconosciute. Poiché perseguono gli stessi scopi istituzionali delle scuole di Stato e svolgono un servizio pubblico, esse non possono essere considerate enti che svolgono attività commerciali.
Posso convenire ad una duplice condizione; la prima mi pare chiaramente espressa dall’esecutivo e cioè che le scuole paritarie si pongano l’obiettivo del pluralismo e della libertà della cultura con conseguente applicazione della libertà d’insegnamento, senza alcuna preclusione ideologica: facile a dirsi, non sempre facile nelle applicazioni, anche per la quasi esclusiva presenza di scuole religiose nell’ambito del riconoscimento legale. La seconda sembra molto spesso ignorata e riguarda il titolare della funzione pubblica in parola, il docente. Ora se la specificità della funzione docente attiene un pubblico servizio, resta inteso che di essa è responsabile lo Stato, almeno nel controllo di abilità ed adeguatezza del titolare della funzione. Ne deriva che non può essere concessa l’esclusiva della scelta del docente al privato chiunque esso sia; e dunque, per la salvaguardia della funzione pubblica dell’insegnamento, anche il docente della scuola paritaria deve essere scelto nelle graduatorie di abilitati alla funzione, da parte dello Stato. Pena, un vulnus nella laicità della scelta. Su quest’ultima condizione mi sembra si voglia glissare, ma la situazione è seria. In ogni caso, quando si verifichino queste due condizioni, a mio avviso, i locali delle scuole paritarie dovrebbero essere esentate, tanto più che molte volte svolgono un’attività di autentico “sgravio” in sostituzione dello Stato.
Un’ultima annotazione a margine, solo per riprendere quanto accennato in premessa.
Sulla questione è intervenuto con tempestività il governo, il quale invece di attardarsi in dichiarazioni ha agito. Resta però il fatto che certe decisioni che attengono la tenuta democratica della nazione ed i difficili percorsi della relativa realizzazione, dovrebbero essere anche oggetto del dibattito che assicura la dialettica ed il confronto politico. Senza tale dialettica ne soffrono la democrazia e le sue libere istituzioni, perché soffrono dell’assenza del cittadino come protagonista. Ovviamente la responsabilità colpevole non è di Monti; sta nelle condizioni della politica italiana, priva degli strumenti e dei luoghi propri della presenza decisionale dei cittadini, i partiti politici e priva di un’elaborazione condivisa delle decisioni. Andremmo fuori tema, più volte ne abbiamo discusso e la strada si fa sempre più difficile ed accidentata.