Quando l’oro era grigio
Giuanen, il Bertulén e Ciaplén: epopea di un calcio a tinte grigie
Giuanen, il Bertulén e Ciaplén: epopea di un calcio a tinte grigie
Vorrei vedere voi d’altronde a non fare mitologia, se quando iniziavate a dare i primi calci a una palla avevate già a che fare con il Balon e il Carlin. Adolfo Baloncieri, il Balon, mi faceva paura. Io ero ancora un bambinetto con le braghe corte e lui era già un gigante. Il fuoriclasse, il più forte di tutti, non ce n’era. Lo guardavo spaventato per quella aria di autorità che emanava in mezzo al campo. Lo temevo e lo ammiravo. Volevo essere come lui. E lui mi ha sempre trattato bene, fino a che è rimasto qui. E mi ha fatto crescere, orco boia se mi ha fatto crescere! Solo Carlo Carcano, il Carlin, ha fatto altrettanto. Mi ha preso sulle spalle e mi ha insegnato il calcio, quello vero. Quando guardavo lui non vedevo il timore reverenziale che avevo col Balon. Con Carlin c’era l’amore di un figlio verso il papà. Ma non è di questi due grandi uomini che voglio parlare. Eccola qua la memoria che fa la strada che vuole lei! Quelli che voglio tirare in ballo sono altri tre uomini. Grandi lo erano altrettanto, con loro però ci sono cresciuto. Non avevo timori reverenziali, solo una stima infinita. Tutti più o meno della stessa età, abbiamo passato giornate intere a giocare con la palla in strada. Solo polvere e sassi. A noi non ci importava. Quando spuntava il sole eravamo lì. Quando andava giù il sole eravamo lì. Solo il lavoro ci portava via. Che in quegli anni pure se eri poco più che un bimbo interessava a nessuno. “Si ha mica i soldi perché tu te ne stia li a far niente” diceva mio padre. E, allora, per fregare il loro di padre, quei tre disgraziati ci han fatto, con quel far niente, un lavoro.
Il primo, quello che noi chiamavamo il Giuanen, un giorno ti accompagna il Rapetti all’allenamento dei Grigi e si mette a paleggiare in mezzo al campo. A Carcano tanto basta per prenderselo in squadra. La sapeva lunga il Carlin. Aveva subito capito che quello li non era mica uno qualunque: era Giovanni Ferrari, l’asso della cannarola. Uno che quando quelli della sua età iniziavano un’esistenza chiusi in fabbrica, lui incominciava una vita all’aria aperta su un campo di pallone. 16 anni e ti era già là sul “pollaio”, lo stadio degli Orti. 16 anni che sembravano 40 da quanto era serio. Tantissimo calcio, pochissima baldoria. Ci interessava niente di essere una star, figuriamoci di fare la bella vita! Tutto calma e modestia era. Ma c’aveva un’autorevolezza che a pochi ho visto. Carattere integerrimo, piede di velluto e incondizionata passione nel correre dietro a una palla: questo era Giovanni Ferrari. Non aveva bisogno di spacconate lui. Solo così diventi il calciatore italiano più vincente di tutti i tempi. 8 scudetti con 3 squadre diverse, 2 campionati del mondo, 1 coppa internazionale. Sgrani un rosario di titoli di uno che ad Alessandria ci è nato, ci è cresciuto e ci ha giocato. Ma, boia d’un boia, qui c’ha vinto solo la Coppa Coni del ’27. Il resto è gloria di altre squadre. Noi che lo abbiamo visto nel fango degli Orti o al Littorio -col Duce in giro il Moccagatta aveva quel nome- ringraziamo ancora di aver potuto ammirare l’asso della cannarola. Ancora ne facciamo vanto che sia stato uno di noi. Ancora ci ricordiamo che il suo soprannome gli viene da dove era nato, quel budello di viuzze tra via XXIV maggio, via Lodi e Corso Cento Cannoni. Te ne potevi partire da un cortile di una casa e arrivare fino a Piazza Valfré senza che i tuoi piedi toccassero mai la strada. Quella era la cannarola, Giovanni Ferrari era il suo asso.
Ricordo ancora quella partita nel ’33 con gli invincibili inglesi. Ce ne stavamo tutti al bar attaccati alla radio ad immaginarci ogni azione. Non avevamo grandi ambizioni, quei cancheri di inglesi erano i maestri di quel gioco. Però sapevamo di avere una grande squadra, che c’aveva in campo pure il Giuanen. Appena lui toccava mezza palla si faceva silenzio totale, come se stesse dicendo la predica il prete. Fu in uno di quei momenti sacri che tutto si fermò per un secondo. Un momento eterno in cui tutti ci guardammo con gli occhi lucidi e un sorriso ebete stampato in viso. Il mondo riprese a girare e noi esplodemmo in un boato. “Giuanen! Giauanen ha fatto gol a qui cancheri di inglesi!”. Andai in giro per un mese a dare di gomito a tutti. Mi guardavano come un matto e io di tutta risposta ci dicevo: “L’hai visto il nostro Giuanen che l’ha combinato”. Il primo italiano a compiere quel grandioso gesto di lesa maestà era il mio amico, quello con cui tiravo calci ad un pallone davanti alla caserma, quello che andavo a vedere con la maglia grigia. Per me avrà sempre quella maglia. Anche se quando compì quell’impresa il grigio si era già distinto in bianco e nero, era sempre uno della grande scuola alessandrina. Ci erano cresciuti tanti di quei campioni che se gli mettevi assieme tutti si faceva il più grande squadrone del tempo.
Invece vivemmo di soddisfazioni indirette. Quello era il modo con cui il destino provava a dare a noi tifosi grigi tutto quello che ci aveva tolto. Sette anni d’oro e non ci abbiamo cavato praticamene nulla. Tutti quelli qua intorno vincevano quasi per caso. Noi, anche se eravamo i più forti, mettevamo in bacheca quella Coppa Coni e basta. La rogna ci perseguitava già da allora. Un mucchio di campioni e lo scudetto…solo sfiorato. E deve essere per tutta quella sfortuna se poi chi tra quei campioni se ne è andato non ha mai esaurito la voglia di vincere. Nel ’30 se ne va il Carlin ad allenare la Juve e si porta dietro il fedelissimo Giuanen. C’avevano talmente fame quei due che di scudetti di fila se ne vincono cinque. Sembrava che non ne avevano mai abbastanza.
Come loro dal barone Mazzonis ci va uno che la pancia vuota l’aveva davvero, non solo calcisticamente. Mi raccontava sempre che quando lo presero alle riserve dell’Alessandria andava avanti a caffelatte e brioches. “Con 25 lire al mese riuscivo a mangiare solo quello -ripeteva- Poi un giorno venne Carcano a chiedermi perché il primo tempo giocavo bene e il secondo non stavo nemmeno in piedi. Io quello gli risposi. Che a broches e caffelatte volevo vederlo lui a correre tutta una partita. E sai lui che fece? Per tutta risposta mi mise all’albergo ‘Croce Verde’. Lì iniziò la più grande battaglia di tutta la mia vita. Mi davano le bistecche più grandi che avessi mai visto da quando ero nato. Le affrontai una per una, e vinsi sempre”. Ora, non se se questa cosa che mi raccontava fosse vera. Aveva la lingua lunga e montava le sue storie fino a farle diventare delle montagne. Così era fatto Luigi Bertolini, il “Bertulén” come tra noi lo si chiamava. Però era vero che di pene ne aveva passate. Ricordo solo quando tornò in città da Savona. L’Alessandria lo aveva ricomprato per 1000 lire e la promessa di un lavoro. Quel lavoro non lo vide mai. Si arrangiò allora a fare quello che gli capitava. Aggiustatore di biciclette per necessità, centravanti per vocazione. Il buon Dio lo fece faticare ma preparò anche per lui il gran giorno. Il mediano titolare Papa si ammalò poco prima della partita contro il fortissimo Torino. Al Carlin li venne una di quelle sue idee che si rivelavano spesso azzeccate. Chiamò Bertulén e gli disse “Domani giocherai mediano”. Si voltò e se ne andò. Quell’altro, che proprio non ce la faceva a non sciogliere la lingua, gli borbottò: “Come mediano? Ma se sono il centravanti delle riserve. Il mediano non lo so fare. E poi, proprio contro il Torino”. Carcano fece dietro front, gli diede un’occhiata veloce, piena di comprensione e gli posò una mano sulla spalla. “Gioca come sai e andrà tutto bene”. E andò davvero tutto bene. Luigi Bertolini fece un grandioso esordio in grigio. Annullò in pratica Baloncieri, il grande Balòn, quello che noi rimpiangevamo ancora, sapendo in cuor nostro che un giocatore così non lo vedi tante volte nella vita. Il fortissimo Torino uscì dal “pollaio” rintronato. Bertolini scalò in un sol colpo tutte le gerarchie.
Pure di questo esordio fece leggenda. Lo incontrai qualche anno dopo ad Alassio dove, come al solito, era lì a rincorrere qualche bella donna. “Vincemmo per 3-1 su di un campo più fango che prato. Feci una gara spettacolosa. Vezzani e Baloncieri toccarono pochi palloni ed impararono a conoscermi -si vantava- Divenni, in un’ora e mezzo, l’idolo di Alessandria. Mi pareva di sognare. Un anno prima dormivo d’estate sotto il ponte del Tanaro, in una specie di capanna con un letto di paglia e di fieno”.
Quello che piace ricordare più a me del Bertulén è un episodio che la racconta molto meglio di tutte le spacconate che andava dicendo in giro. Nel ’34 l’Italia, fresca campione del mondo, andò a giocare ad Highbury. Agli inglesi proprio non andava giù che in giro si diceva che eravamo i numero uno sulla Terra. Loro erano i maestri del calcio e per loro quella là era solo una coppa per i secondi, per chi il pallone lo sapeva trattare peggio di loro. Quei matti partirono con tutta la rabbia di chi sente intaccato il suo orgoglio. Un quarto d’ora e l’Italia ti era già sotto di tre gol, per di più dopo spaccarono un piede a Luisito Monti e lui deve uscire dal campo. Lui c’aveva provato a starci lì dentro, aveva resistito più che poteva. Ma provate voi a giocarci con una piede rotto con gente che picchia peggio di un fabbro. Highbury era un inferno, a scendere in campo ti dovevano tremare le gambe. Nessuna sperava più nulla, si pensava a portare la pelle a casa noi attaccati alla radio. I nostri lassù invece ci voleva ben altro per stenderli. Nella ripresa ci si rifà sotto, due gol di Meazza zittiscono lo stadio. Tutti lì col fiato sospeso. Poco prima della fine della partita Guaita si trova solo davanti alla porta, noi con l’urlo già pronto in gola. Ma eccola lì la rogna, quella che chi aveva giocato in grigio conosceva bene. Guaita non ti va a beccare un palo clamoroso con il pareggio che ti sfuma di un soffio. L’orgoglio inglese comunque era atterrito, i loro tifosi stupefatti. Mica se lo aspettavano di vedere dei leoni in un’altra squadra. Non ci credevano che ci fosse un leone tra i leoni di Highbury come il Bertulén. Che giocatore! Era stato maestoso quel giorno! Si spogliò dell’immancabile fascia bianca che portava in testa, vezzo esibizionistico per il pubblico d’oltremanica, e fece vedere a tutti chi eravamo. Nemmeno lui al tempo aveva già più la maglia grigia addosso. Per me quell’episodio è sempre stato però un vanto dell’Alessandria. Quello spirito glielo avevamo dato noi. Qui si era imparato cosa vuol dire lottare fino alla fine, mettere giù i paraocchi come i muli e tirare avanti anche se tutto intorno ti dice di arrenderti. Qui si era imparato cosa vuol dire tenere sempre la testa alta pure se tutti ti dicono di abbassarla. E qui si era imparato anche a far la bocca alle vittorie. Sapevi che la rogna ti perseguitava e che non ti permetteva mai niente di facile. Sapevi però che eri talmente forte che anche la rogna a volte doveva inchinarsi a te.
E dovette inchinarsi davvero un grandioso giorno del 1927 quando il Carlin, Giuanen, Bertulén erano ancora dei nostri. Eravamo in finale di Coppa Coni, ce la si giocava con il Casale. Con quelli là non ci potevamo vedere già da allora, immaginate che bolgia doveva essere giocarsi la vittoria di qualcosa. La prima partita era da loro. Facemmo 1-1. Al ritorno al “pollaio” sembrava che ci fosse tutta Alessandria. C’avevo sempre visto tanta gente in quegli anni al campo, ma così tanta era una di quelle robe che ti immaginavi potessero avere solo il Torino o la Juventus. D’altronde con una cavalcata in cui ci infili 9 gol in una sola partita al Napoli voglio vedere io se non entusiasmi una città. Sotto gli occhi di tutta quella gente chi poteva essere che ci faceva urlare di gioia per primo? Proprio lui, il Giuanen. Che partita che fece quel giorno! Era iniziata la sua era e solo una guerra ha potuto interromperla. Se no quello li dopo 15 anni che vinceva, sarebbe andato avanti ancora a vincere. Tutta quella serie sterminata di trofei iniziarono proprio quel giorno, da quella coppa. Da quel 2-1 al Casale di Caligaris con un gol suo e uno di Cattaneo.
Ecco, se mi si chiedesse di eleggere ad emblema qualcuno prenderei proprio Cattaneo. Non sceglierei né il Giuanen ne il Bertulén, troppo vincenti quei due. Loro rappresentano la nostra gloria, tutto ciò che siamo stati e potremmo sempre essere. Loro ci fanno ricordare un’epoca in cui l’oro era grigio. Anche Renato Cattaneo se è per questo me la fa ricordare. Ma lui c’ha avuto molta più rogna, lui non ha tutta quella roba in bacheca. Per questo a star dietro a tutto quello che mi è passato sotto gli occhi in questi 100 anni mi si imprime la faccia di Renato Cattaneo, figura di fedeltà e di chi si porta dietro la rogna cattiva, di quelle che non te la togli mai di dosso. E dire che in campo lui era uno che faceva impazzire i difensori avversari, stava mai fermo. Di qua e di là continuamente con quei suoi scatti che non lo prendevi manco se tu avevi una bicicletta e lui era a piedi. Sembrava quasi che schizzasse improvvisamente, come quei sassi che lanci sul pelo dell’acqua e rimbalzano, i “ciaplén”. Con tutta quella agilità aveva anche un tiro mica da ridere. Ve lo immaginate un povero portiere che si vedeva arrivare una palla di cuoio pesante, con le cuciture spesse in bella vista, a tutta velocità? Che strizza doveva avere!. Già chi gli stava davanti sgranava un rosario di bestemmie solo per riuscire a stare attaccato al didietro di quello là. Il povero portiere di turno se lo trovava vicino e si vedeva scagliare un macigno addosso. Quanti ne ha fatti uscire di testa il Ciaplén! Che anche lui poi è un’altra delle scoperte del Carlin, una delle sue intuizioni. Renato lavorava al Borsalino, al pallone gli dava il tempo che gli restava. Lo trovavi in Piazza d’Armi con tanti altri ragazzini come noi. Là ci andavamo a sognare giocando al calcio con la passione di chi lo faceva per professione. Il Carlin c’aveva l’occhio lungo e da lì ci passava spesso, qualcuno di buono prima o poi l’avrebbe trovato. Ed è lì che un giorno vide un ragazzino che faceva ammattire tutti i suoi amici, me per primo. Quel ragazzino che rimbalzava di qua e di là come una pietra lanciata a pelo d’acqua, col suo insieme letale di velocità e potenza. Quel ragazzino che fermavi solo in un modo: a suon di calcioni, e il più delle volte neanche quello bastava. Da quel prato malmesso di Piazza D’Armi, Renato Cattaneo arriva a 20 anni a un “pollaio” che già da nome ti dice che messo tanto meglio non era. Da scherzare con gli amici a prendere per il naso i campioni delle squadre professioniste non gli cambiava nulla. Senza tanti timori fin dall’esordio ha fatto impazzire quei poveracci dell’Andrea Doria che dovevano tenerlo. E fin da quell’esordio ha fatto quello che sapeva fare tanto bene: gol. Da quel primo lì si è fermato solo dopo 146 con la maglia grigia, nessuno lo ha ancora raggiunto.
La rogna però lo accompagnava sempre, fedele a lui fino alla fine. I suoi vecchi compagni si vincevano scudetti, coppe del mondo, appuntavano la maglietta di allori e lui niente. Imperterrito si ostinava a dipingere la sua vita con un solo colore. E dire che di scoppole ne aveva già prese abbastanza per una carriera intera. Quella stagione ’27-’28 con quel campionato sfuggito così, con un pugno di mosche in mano. La gloria che ti passa davanti e ti volta le spalle quando stai per abbracciarla. Quell’anno facemmo un girone finale condotto tutto testa a testa con un grandioso Torino. C’avevano il trio delle meraviglie, loro: Baloncieri, Libonatti, Rosetti. Anche noi con un terzetto magico come Ferrari-Cattaneo-Avalle scherzavamo mica. E i granata lo sapevano. Quell’1-2 che gli rifilammo al Filadeflia gli aveva messo gli incubi. A tre giornate dalla fine gli toccava guardarci da dietro. Venne però quella canchero di partita con il Casale a rubarci il nostro momento, quello che stava scritto nella storia del calcio. Un 5-0, sconfitta inspiegabile, inimmaginabile. Di fantasia si lavorava già allora, ci appellammo alla combine. Curti, il nostro portiere, se le era fatte passare troppo facilmente quelle palle. Vuoi che fosse il caso che quel lì proprio quel giorno se la facesse addosso? Si doveva essere messo d’accordo con qualcuno! Io ci ho pianto dietro per una settimana per quella maledetta partita di pallone. E ci devono essere rimasti male tutti. Da quel giorno lì non eravamo più gli stessi. L’anno dopo ancora gioie ma nulla di paragonabile. Poi il Carlin, il Giuanen, Bertulén se ne vanno via, vanno a vincere tutto quello che possono. Qui il Ciaplén rimane ancora qualche anno. Sfondava le porte con una rabbia che sembrava gridare maledizioni per quello scudetto. Poi anche lui ti decide che è ora di cambiare aria. Se ne va alla Roma, senza grandi speranze. E in quel primo anno si ritrova di nuovo là, a lottare per vincere. Di gol ne fa pochi ma di quelli che in città non ti scorda più nessuno. Doppietta nel derby e quel mandrogno che ti diventa l’idolo della capitale del mondo. Anche lì però la medaglia da mettersi sul petto se ne vola via. Un punto sopra c’era la gioia e un punto sotto ci sono le lacrime. E da che parte volevate che lo mettesse il destino se non da quello delle lacrime.
Che senso aveva allora rimanere a Roma? Che ci stai a fare se nemmeno lì vinci? Quel grigio lo lasciavi giusto per andartene dove la rogna non era di casa. Te ne andavi perché in altri posti ti si permetteva di sognare fino all’ultimo, non ti svegliava nessuno sul più bello. Per cadere nel momento di massimo splendore, tanto valeva rimanere qua. Con la maglia grigia ti ci abitui a soffrire. Sai che la fortuna non te ne darà mai una buona. Ti devi costruire uno spirito più forte di tutto. Tu vuoi continuare a fare sogni, non importa quante volte si dissolvono. E solo con quella maglia grigia addosso per quanti volte cadi tu ti rialzi sempre. Ti da qualcosa di speciale, che non te lo levi anche se vai via e ci metti sopra una casacca piena di allori. Ha qualcosa di strano, qualcosa che ti si infila non sai come nella pelle. Quel colora che a tanti pare brutto ma che tu ti tieni stretto come quello più bello del mondo. Il grigio ti rimane appiccicato e te lo porti dietro ovunque vai.