Don Fiocchi: “Più vicino ai giovani, grazie a Internet”
Il parroco di Castelceriolo racconta la sua esperienza sul web come strumento di dialogo e di avvicinamento dei ragazzi alla Chiesa. Ma emerge anche un commosso ricordo di Monsignor Charrier, e un sempre forte sentimento di vicinanza alla Palestina
Il parroco di Castelceriolo racconta la sua esperienza sul web come strumento di dialogo e di avvicinamento dei ragazzi alla Chiesa. Ma emerge anche un commosso ricordo di Monsignor Charrier, e un sempre forte sentimento di vicinanza alla Palestina
Don Walter, lei ha scoperto il web da quando si è trasferito a Castelceriolo, o lo usava già in precedenza?
L’ho scoperto molto prima, assolutamente, anche se insediandomi nella mia nuova parrocchia, due anni fa, ne ho sperimentato un utilizzo nuovo, e molto efficace. Mi spiego meglio: fino al 2007 utilizzavo Internet come strumento di informazione, per documentarmi sui fatti del mondo. Negli anni in cui sono stato editorialista di Voce alessandrina avevo anche un blog, che peraltro di recente qualcuno mi ha chiesto di rivitalizzare, vedremo. Ci vuole tempo, e io non ne ho poi molto…
Ma in che modo nella sua nuova parrocchia ha utilizzato e sta utilizzando il web?
Un paio di anni fa è esploso il fenomeno dei social network, e di Facebook in particolare. Ed io, arrivato in paese, ho scoperto al contempo che i ragazzi non frequentavano chiesa e parrocchia, se non una volta l’anno, a Natale, in occasione del presepe vivente. Troppo poco per dirsi pienamente cristiani, no? Allora ho provato ad avvicinarli on line, a chiacchierare con qualcuno, senza invadenza…e si è progressivamente sviluppato un dialogo, sempre più allargato. Oggi posso dire che attorno alla mia parrocchia c’è un gruppo vivace, e crescente, di ragazzi e di ragazze che vivono la bellezza dell’incontro, del confronto, dello stare insieme. Il che non significa che non frequentano più il circolo Acli, o il bar Sport. Ma sanno che le porte della canonica e della chiesa sono sempre aperte, per la messa ma anche per dialogare di valori, di scelte, di fede.
Mi pare di capire, don Walter, che lei a Castelceriolo sta mettendo radici…
Spero di sì, anche perché ho 61 anni ormai, e dopo una vita ricca di esperienze diverse, sto costruendo rapporti profondi con la mia comunità, e mi piacerebbe fermarmi. L’esperienza del paese, se la si vuole vivere davvero, è per un parroco assai più “totalizzante” di quella della parrocchia di città: sei una figura ancora centrale, e da cui giustamente le persone si aspettano molto.
Lei non è alessandrino: come è capitato da queste parti? Ripercorriamo alcune tappe della sua storia di uomo di Chiesa, le va?
Volentieri. Io sono nato sull’appennino emiliano, in un paesino in provincia di Reggio Emilia, da famiglia poverissima. I miei facevano i mezzadri, e negli anni Cinquanta non avevamo ancora in casa la corrente elettrica. Avevo sette anni quando i miei decisero di trasferirsi a lavorare a Milano, e io lì ho studiato, ma solo fino alla terza media. Sono seguiti cinque anni di lavoro come barista, e come impiegato in una piccola azienda tessile, in cui vedevo passare sotto i miei occhi Valentino e altri famosi stilisti. Ma al contempo maturava in me la vocazione religiosa, e a 19 anni e mezzo sono entrato in seminario, e ho studiato teologia.
Ad Alessandria è arrivato nel 1977, e non se ne è più andato….
E’ diventata la mia città, e qui ho vissuto tutta la mia vita religiosa adulta. Dopo l’ultimo anno di studi, sono stato ordinato prete nel 1978, durante il brevissimo pontificato di Papa Luciani. E la prima esperienza è stata come vice parroco della parrocchia di Sant’Alessandro, con Monsignor Canestri. Cinque anni, cui ne seguirono altri 6 come vice parroco in Duomo. Fu un periodo molto intenso, soprattutto sul fronte della scuola: insegnavo religione alle Magistrali, e c’era sia con i colleghi che con gli studenti e studentesse un rapporto molto vivo, di dialogo e partecipazione. Anche grazie alla presenza di un grande preside, e insegnante di filosofia: Ezio Garuzzo.
Quando ci fu il suo incontro con Monsignor Charrier, con cui lei ha collaborato a lungo?
Fu nel 1989, in occasione del pensionamento di Monsignor Maggioni, grazie ad una proposta per me assolutamente inaspettata di Monsignor Canestri, che mi disse: “credo che tu saresti un ottimo segretario del nuovo vescovo”. Ci ho pensato due giorni, e ho accettato. Non conoscevo Charrier, ci siamo incontrati la prima volta a Betania, nel giugno dell’89. E da lì è cominciato un percorso che per me è stato di totale arricchimento (spirituale, interiore e intellettuale), fino al 2007, momento del suo pensionamento, e anche oltre. In questi ultimi mesi andavo a trovarlo, ed era una pena crescente. Ma lui, anche se quasi non riusciva più a parlare, comunicava con gli occhi, e ascoltava i progetti di cui gli parlavo, si capiva che avrebbe voluto ancora contribuire a realizzarli.
Che persona era Monsignor Charrier?
Credeva tantissimo nell’uomo, e nei rapporti umani. A qualcuno poteva apparire rigido, ma era solo riservatissimo, e timido. E poi ha sempre sofferto di ulcera, senza mai lamentarsene in pubblico: ma io sapevo che a volte certi silenzi erano dettati da una forte sofferenza fisica, mai ostentata e anzi quasi sempre celata. Detto questo, credo che sia stato uno straordinario uomo di Chiesa, sempre vicino agli ultimi e ai loro bisogni, che ben comprendeva forse anche per le sue origini molto povere. Non so se faccio bene, ma le racconto un aneddoto…
Deve…
Io fui il suo segretario per cinque anni, e poi direttore dell’Ufficio Pastorale Giovanile, e responsabile del Sinodo diocesano. Insomma, per forza di cose eravamo a strettissimo contatto: spesso partivamo alle cinque di mattina per andare in aeroporto, perché lui aveva anche importanti incarichi a livello nazionale, dove si occupava soprattutto di tematiche legate al lavoro. Ebbene una sera lo accompagnai (fuori Alessandria: lo dico per evitare chissà quali ricostruzioni) ad una cena di altissimo livello, dove c’erano industriali, banchieri, gente straricca. Io ero al tavolo a fianco, ma intuivo il suo disagio. Prima della fine della serata si congedò cortesemente, e ce ne andammo. Scendendo le scale del palazzo, mi disse: “don Walter, chissà mio papà di lassù, vedendomi in questi posti, cosa pensa di me”.
Un atteggiamento che, peraltro, gli valse anche delle critiche. Fu, e foste, accusati di eccessiva vicinanza ai partiti di sinistra, alla giunta Scagni in particolare.
Guardi, io l’etichetta di cattocomunista me la prendo tutta, e ci sorrido. Ma mi creda, Monsignor Charrier era lontanissimo da beghe di partiti, e di schieramenti politici. Il rapporto con Mara Scagni fu sempre eccellente, ma nell’assoluto rispetto dei ruoli, e senza la minima ingerenza. Charrier, per farle un esempio, era anche molto amico di Rosy Bindi, e di tanti altri politici cattolici. Ma se passavano in città preferiva non incontrarli, proprio per non schierarsi mai sul piano politico.
Lei invece, don Walter, prende spesso opinioni nette, ed è un prete engagé: ha da anni un suo blog, molto apprezzato ed è stato editorialista, oltre che a lungo di Voce alessandrina, anche di testate come Adista e Micromega. Insomma non si occupa solo di anime….
Io mi occupo di uomini, che sono anime ma anche corpi, nella loro vita reale. Sempre con un approccio evangelico, e sempre con l’interesse per la Politica come insieme di valori cristiani, che è cosa ben diversa dai partiti naturalmente.
Ultimamente c’è chi parla di rifare la Dc, o comunque un nuovo partito dei cattolici. Che ne pensa?
Per carità, ero ben conscio dei limiti anche di quello vecchio, partito dei cattolici, pur comprendendo il contesto in cui si era sviluppato. Vede, io credo che i cattolici, quelli veri naturalmente, sono il lievito della società. Come tali, devono stare ovunque: una pizza fatta solo di lievito, per capirci, è una schifezza. Mentre i valori cristiani vanno portati avanti ovunque. Ci sono finti cristiani che esultano se affonda un barcone di migranti clandestini, eppure vanno a messa la domenica. E ci sono d’altra parte atei che giustamente invece difendono il valore della vita e della diversità, ma poi magari sull’aborto hanno posizioni che un cattolico non può accettare. Per questo occorre essere ovunque, e difendere i valori in cui crediamo.
Don Walter, come è nato il suo amore per la Palestina?
Nel 1996, proprio con Monsignor Charrier. Organizzammo un pellegrinaggio di meditazione e preghiera, cui ne seguirono diversi altri. Ricordo in particolare l’imbarazzo, mio e di Charrier, quando durante uno di questi incontrammo l’allora sindaco di Gerusalemme Olmert, che fu poi primo ministro. Ci fece un compiaciuto ragionamento sui palestinesi terroristi, bambini compresi. Dicendo che la pace sarebbe arrivata quando l’ultimo palestinese fosse stato buttato a mare. Per fortuna Alessandria, pur nell’assoluta distinzione tra Comune e Curia, rispose allora nel modo più corretto, ossia con il gemellaggio, nel giugno 2004, tra il nostro Comune e la città palestinese di Gerico. A cui seguì un bellissimo incontro-dialogo di un’ora e mezza con Arafat a Ramallah. Comunque il mio impegno in favore di quella terra martoriata continua oggi, naturalmente per quel poco che posso, in termini di vicinanza e testimonianza.