“Il mio Pd, progetto incompiuto…”
Educatore, preside, ex vicesindaco e assessore alla Cultura nella giunta Scagni. Agostino Pietrasanta riflette sulla politica nazionale e alessandrina. Dalle primarie del Partito Democratico ai sempre più carenti investimenti nel settore della formazione, fino al ruolo dei cattolici nella vita pubblica e nei partiti
Educatore, preside, ex vicesindaco e assessore alla Cultura nella giunta Scagni. Agostino Pietrasanta riflette sulla politica nazionale e alessandrina. Dalle primarie del Partito Democratico ai sempre più carenti investimenti nel settore della formazione, fino al ruolo dei cattolici nella vita pubblica e nei partiti
Professor Pietrasanta, cosa ne pensa dello scenario della politica alessandrina di questo fine 2011?
Mah, è sconfortante, e fa pensare che ci sia bisogno di una rifondazione profonda, di valori. Io credo che occorra davvero, nella vita e nelle relazioni umane, e quindi in politica, tornare a mettere al centro l’uomo, la persona. E che il punto di partenza non debba più essere, come è successo in questi anni, “posso faccio tutto ciò che non danneggia gli altri”, ma semmai “devo fare tutto ciò che può aiutare gli altri”. Spero di non metterla troppo sul filosofico, ma davvero credo che si debba partire da lì.
Ma, concretamente, lei si sente ancora impegnato e in trincea? E’ ancora iscritto al Pd, tra l’altro?
Sì, sono ancora iscritto al Partito Democratico, anche se posso serenamente affermare che il progetto in cui credevo, e credo, non si è realizzato. E spero di non essere il solo a pensarla così. L’incontro e la sintesi tra le forze e i valori del cattolicesimo democratico e quelle della sinistra storica doveva essere il lievito con cui far crescere il Pd, ma ad oggi non è successo. Credo che ci si sia colpevolmente ripiegati su una dimensione di gestione del potere, a livello centrale e periferico, che non ci ha aiutati a muoverci verso quella “democrazia progressiva” che deve prevedere una partecipazione del popolo, ma una partecipazione consapevole, informata. E appunto regole condivise.
A proposito di regole, siamo alla vigilia ormai delle Primarie alessandrine del centro sinistra. Lei voterà, e per chi?
Posso risponderle che non ho ancora deciso per chi votare, ma che mi auguro che l’occasione non venga sprecata. Se l’appuntamento del 13 novembre viene vissuto come una sfida tra candidati, e non come un confronto aperto sui programmi, a partire dalla città e dai suoi bisogni, abbiamo già perso, comunque vada a finire. La politica è ascolto, individuazione dei problemi, e miglior risposta possibile, naturalmente in rapporto ai mezzi disponibili.
Mezzi e risorse che sembrano essere, ad Alessandria in particolare, sempre più scarse. Visto da fuori ormai, Palazzo Rosso che impressione le fa?
Una brutta impressione, soprattutto se guardo alla pochezza degli investimenti sulla cultura. Sembra quasi che la cultura sia un di più, un lusso che ci si può concedere solo nei periodi di benessere, e che in fasi di crisi come quella attuale può essere tranquillamente messa da parte. Ma un Paese, e una città, che non investono in cultura, e in formazione, sono morti, non hanno speranza.
Tutto da buttare nell’operato di Paolo Bonadeo, assessore alla Cultura della giunta Fabbio?
Francamente non credo che gli scarsi risultati e le ancora minori prospettive siano da attribuire a Bonadeo. Con lui ci siamo confrontati, ricordo, in maniera più che civile e costruttiva in passato, e credo che abbia più subìto che generato la situazione presente. Certo però, al di là delle responsabilità individuali che non sta a me stabilire, uno arriva ad Alessandria e chiede: scusate, dov’è il museo? E il teatro? Lo scenario lo vediamo tutti…
Però anche lei, in giunta con il sindaco Scagni, dopo due anni e mezzo ha alzato bandiera bianca…
Mi dimisi, le assicuro, per ragioni del tutto personali, e sono sempre rimasto vicino alla giunta di centro sinistra, fino alla fine del mandato. Ma naturalmente non è che anche allora le risorse per la cultura abbondassero, e non faccio un discorso biecamente di parte. Dico che se i cittadini, soprattutto quelli più giovani, non hanno la possibilità di crescere sul piano culturale, in tutte le direzioni, daranno poi un pessimo apporto alla società sia sul fronte del mercato del lavoro, sia su quello della consapevolezza civica. Tutto è collegato.
Ma lei professore, da intellettuale cattolico, cosa pensa di tutta questa voglia di rifare la Dc che si sente nell’aria?
Io credo che la Dc non si può e non si deve rifare. E men che meno sue pessime imitazioni. Non è che la Democrazia Cristiana non abbia avuto un ruolo fondamentale nella storia di questo Paese, sia chiaro: lo ha avuto eccome. Soprattutto, ha saputo portare sulla sponda moderata tutta una parte di popolazione che, nel dopoguerra, rischiava assolutamente la deriva conservatrice, e reazionaria. Detto questo, la Dc è poi naturalmente stata tante cose, belle e meno belle. Ma è finita tanti anni fa. Oggi i cattolici sono sparsi un po’ovunque, e credo sia giusto così, perché non è più tempo di guerra fredda e steccati ideologici: e i cattolici devono difendere i loro valori senza “tirare la giacchetta” alla Chiesa, e neanche rivolgersi alla stessa per avere indicazioni su singole questioni che riguardano normative dello Stato laico. La Chiesa è portatrice di valori, ma non può mai diventare politicamente di parte. Se le si chiede questo, la si danneggia.
Professore, lei ha dedicato tutta la sua vita professionale alla formazione delle nuove generazioni. A quale periodo del suo percorso rimane più legato?
Certamente ai tanti anni trascorsi come preside all’Istituto Magistrale, dove ereditai peraltro il testimone da un collega di grande spessore come Ezio Garuzzo. Ma conservo bei ricordi di tutte le tappe, dai primi anni alla media Straneo, fino all’esperienza finale al Classico. Semmai guardo con un po’ di preoccupazione e sofferenza al presente e futuro del comparto istruzione, costantemente maltrattato e sotto attacco. E un Paese che non investe seriamente nella scuola mette a serio rischio il proprio futuro.